CAVALLI di Gjeke Marinaj (Trascrivere la poesia)

Angela De Leo

Stupendo inizio con un “Per” che indica già di per sé un avvio in movimento riguardante il “viaggio” di tutta “la nostra vita” con la determinazione a raggiungere una meta. Ognuno dovrebbe averne una propria, prefiggersi uno scopo, una missione che dia senso a tutto il viaggio. Ma la realtà è diversa. È possibile stabilire la meta se non si ha paura del passato, che è un possibile “futuro capovolto”: è dalla esperienza vissuta da noi e dai nostri antenati che occorre ripartire per continuare sul loro esempio o per ribellarsi alla tradizione e al silenzio e rinascere e realizzare un futuro migliore. Il timore di ricordare un passato difficile diventa ostacolo alla costruzione di un futuro diverso.

Ed ecco il disvelamento: i protagonisti di questi versi che urlano al cielo una storia amara di soprusi non hanno un nome: sono semplicemente cavalli. Animali eleganti, nobili e fieri nel loro andare, ma non in questo caso. I due anaforici quanto suggestivi versi che seguono, brevi come uno sperdimento, definiscono un vuoto, una deprivazione: “Senza”
Senza piangere
Senza ridere.
A questi cavalli non è concesso avere lacrime o risate. Ossimoro meraviglioso ad indicare la gioia e il dolore: i punti estremi di ogni sentimento in cui si snoda la vita della mente e del cuore di ciascun essere umano.

Al nulla che il “Senza” definisce, segue l’inevitabile silenzio dell’asservimento. Piegata/piagata è la volontà di reagire. Il silenzio, in questo caso, non prelude al rumore del mondo o alla parola di ribellione o al canto della sfida e della vittoria. E neppure alla preghiera di gratitudine e di ringraziamento. Qui anche il silenzio è assenza di qualcosa di vitale che indica movimento e pensiero, libertà di essere e di andare per perseguire la meta e realizzarsi.

Qui c’è solo un chinare la testa al volere altrui, del più forte, di chi esercita il Potere con coercizione e violenza. E impedisce di pensare. È concesso solo di eseguire compiti con mezzi e ruoli diversi, ma estraniandosi da sé per assecondare il potente di turno, fosse un re o una principessa.

Ed ecco che improvvisamente i versi scoprono i verbi all’imperfetto. Il presente cede l’azione a un passato senza tempo, al “c’era” delle fiabe, che a volte sanno essere crudeli e non assicurano il lieto fine se non dopo la fuga e l’allontanamento del protagonista con relativa sfida e combattimento contro l’antagonista, fino alla sua morte.

Il primo (il re) consentiva al cavallo di avere un “grado più alto” nella sua schiavitù e la seconda (la principessa) di mostrare “una sella d’oro” e fingere una ricchezza che non possedeva. Ma c’era anche il cavallo del contadino che era “sellato di paglia” e, se disubbidiva, veniva mandato fuori a morire al freddo e al gelo.

E qui d’improvviso il tempo del verbo cambia nuovamente: il “c’era” diventa presente e attualizza la condizione di schiavitù dei cavalli. Ma, se nelle fiabe la fine del combattimento che decretava la morte dell’antagonista e il ritorno dell’eroe a casa, permetteva a quest’ultimo di concludere la fiaba con il lieto fine, questa poesia non è una fiaba e non può avere il lieto fine se l’ultimo verso si copre di amara e spietata rassegnazione: “Ma con gli umani sempre cavalli restiamo!”

E il punto esclamativo sancisce il “grido di dolore” del poeta di fronte ad una realtà che urla la disumana condizione di asservimento del “cavalli”, suoi compatrioti, al potere del Regime comunista nella sua amatissima Patria, l’Albania.

E quel suo grido di dolore del 19 agosto di trent’anni fa, si fece eco senza fine su ~Drita~, Quotidiano Albanese di cronaca a carattere nazionale.
A una prima lettura ai più sembrò una semplice poesia in difesa degli animali e, in particolare, degli stupendi cavalli dallo sguardo fiero e dalla cavalcata elegante e maestosa, purtroppo in cattività.

In realtà si trattò di una feroce satira politico socio-culturale da parte di Gjeke Marinaj sul suo popolo. Fu un coraggioso atto di ribellione al regime comunista da parte di un audace e forse incosciente venticinquenne, poeta e giornalista non ancora famoso. Gli Albanesi rimasero increduli, ma in poche ore comprarono tutte le copie del giornale. Molti si affrettarono a scrivere quei versi su pezzettini di carta per diffonderli dappertutto, fino a farne un inno di protesta durante le numerose manifestazioni antigovernative che di lì a poco si accesero come fuoco controvento per incendiare cuori e volontà.

Gjeke divenne in brevissimo tempo l’eroe dell’Autonomia e della Libertà Albanese. Ma anche il ragazzo costretto (e determinato) a fuggire di notte per evitare il rischio tangibile di essere impiccato come altri poeti dissenzienti prima di lui. Non più l’eroe di una fiaba a lieto fine, ma l’esule di una storia vera in un nuovo percorso, difficile e tortuoso quanto solitario e disperato, tra straniere genti. Ma qualche volta anche la storia offre ai suoi ardimentosi protagonisti un lieto fine.

Gjeke Marinaj ne è oggi la dimostrazione più bella e vera e gloriosa. E tutto il mondo lo applaude come Poeta raffinato, ideatore della teoria filantropica e filosofica del Protonismo che fa meritatamente di lui l’Ambasciatore di Pace tra tutti i Popoli del nostro Pianeta.